Avanti talenti, avanti Talents in Motion!

Perchè il miglior modo di fermare la migrazione dei talenti è aprirsi al mondo

Il vero valore aggiunto per ogni Paese sta nel poter permettere ai propri giovani di muoversi, scoprendo nuove culture, modi di fare e di pensare, e, quindi, prendere coscienza delle proprie potenzialità e realizzarle affinché diventino talento. Oggi, la possibilità di essere interconnessi, scoprendo con un click i posti più reconditi del pianeta, è reale e rappresenta per tutti, ma soprattutto per i giovani, la modalità per essere al passo con i tempi e, conseguentemente, reggere la competizione mondiale con i rispettivi coetanei, con i quali hanno sempre più modo di interfacciarsi.

Per i nostri ragazzi, rispetto a quanto è avvenuto per la mia generazione e quella dei miei genitori, tutto questo è naturalmente insito nel loro modo di essere e di agire. Così diventa scontato parlare lingue straniere e sempre più forte è il desiderio di essere attori di un contesto globale, vero valore aggiunto che perseguono. La maggior parte di essi vuole cogliere questa opportunità. L’ottimo paretiano per un Paese è dunque la possibilità di essere aperto agli altri, di essere accogliente e attrattivo e la circolarità dei talenti è ciò a cui si deve auspicare. Tuttavia, quello che rappresenta un problema oggi è la mancanza di opportunità da offrire che possano rendere un Paese appealing, l’impossibilità di fornire ai propri giovani talenti quegli strumenti idonei a “scoprire il mondo”.

Il problema non è dunque partire, bensì il non avere le opportunità concrete di poter rientrare. Questa è, a mio avviso, la vera criticità dell’Italia di oggi: non riuscire ad attrarre, o riattrarre, i talenti oltreconfine, siano essi italiani o stranieri, e fornire loro i presupposti indispensabili perché possa considerare questo Paese come una tappa, anche solo temporanea, nel loro cammino professionale e di vita.
Negli ultimi venti anni, nel mio vissuto personale e grazie alla mia professione di Head Hunter ho toccato con mano la difficoltà di trovare profili in linea con le richieste di un mercato in crescita e sempre più competitivo. Conosco il rischio di un indebolimento delle imprese che può derivare dal mismatch di competenze, l’impoverimento del capitale umano e il danno derivante dall’incapacità di essere un player forte nel contesto internazionale. 

Conosco questo fenomeno anche perché sono una mamma di due ragazzi adolescenti che, in questa fase della loro vita, sono chiamati a fare delle scelte importanti. Mi interrogo su quale sia la scelta migliore da prendere. Spronarli a partire nella consapevolezza che potrebbero non ritornare perché impossibilitati o consigliare loro, da mamma, di restare e giocarsi le loro chances in Italia? E, se qualcosa dovesse andare storto, di chi sarebbe la colpa? 

La fuga dei talenti all’estero è, dunque, qualcosa che riguarda tutti noi, perché coinvolge direttamente i nostri figli, parenti, amici.

Leggendo i dati, entriamo in contatto con una realtà che non può lasciarci indifferenti: l’Italia fatica a fornire opportunità per i giovani, soprattutto se preparati, brillanti e magari appena laureati in discipline scientifiche STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). 

Sulla base di dati dell’Istat e della Banca d’Italia, studi economici recenti quantificano in 14 miliardi di euro il costo per il Paese di aver investito sul sistema scolastico che ha formato studenti i quali, successivamente, hanno poi preferito, o hanno dovuto per mancanza di opportunità, trasferirsi all’estero per lavorare, con la prospettiva di una retribuzione più alta e di un sistema più meritocratico in grado di velocizzare la loro carriera professionale.
Negli ultimi dieci anni, mezzo milione di giovani ha lasciato il Paese per ricercare opportunità professionali e di vita migliori. Questa “migrazione silenziosa” ha un costo per il Paese, calcolato in 1% del PIL. 

Diversi sono stati gli sforzi, seppur non sistematici, dei governi che si sono succeduti e che hanno cercato di realizzare un’inversione di rotta di questo fenomeno migratorio.  
Il “decreto Crescita”, ad esempio, ha previsto incentivi fiscali che hanno favorito il rientro. Recentemente, il Nucleo di Valutazione e Analisi per la Programmazione, presso il Dipartimento per le Politiche di Coesione, si è interrogato su quali possano essere gli interventi per contrastare la perdita di capitale umano. Durante la conferenza, tenutasi a Roma, abbiamo anche indagato cosa possa fare il policy maker per innescare dinamiche costruttive di attraction e di retention. 

Di sicuro tutto questo non è irrilevante e rappresenta una presa di coscienza di un fenomeno reale, su cui si sta agendo e bisogna continuare ad agire. Mi capita di frequente di interrogarmi su cosa sia possibile fare ancora per invertire la rotta, se la strada che abbiamo intrapreso come sistema Paese sia quella giusta o se si debba mettere in campo dell’altro.
La risposta che mi sono data è che non si può continuare ad essere spettatori di qualcosa che ci riguarda in prima persona. Occorre fare di più, lavorare sinergicamente per dare la possibilità al Paese intero di tornare ad essere competitivo, di aggiudicarsi il posto che merita nello scenario internazionale. 

A mio avviso, dunque, sarebbe necessario partire dalla realizzazione di un sistema di defiscalizzazione differenziato in base alla qualità delle posizioni e dei profili, oltre che alle esigenze delle imprese. 
Dovremmo anche ripensare le nostre forme contrattuali, rendendole più efficaci e soprattutto in linea con quello che i Paesi esteri offrono, per un mercato del lavoro sempre più dinamico e flessibile. Siamo sicuri che i nostri giovani talenti ambiscano al posto fisso? La mia esperienza dice che questo è un concetto superato nella maggior parte dei casi. 

Sicuramente, sarebbe utile predisporre un secondo binario di incentivi fiscali direttamente rivolti a trattenere i talenti in Italia, prima ancora che questi decidano di andare via, velocizzare le procedure burocratiche per favorire la circolazione di capitale umano altamente qualificato in università e imprese e migliorare l’interazione tra quest’ultime per rispondere in maniera coerente alla domanda di formazione e di competenze. 
Non da ultimo, è fondamentale rendere il sistema aziendale in grado di intercettare i migliori talenti con programmi di circolazione che pianifichino, dopo esperienze di lavoro all’estero, il rientro in sede, così da mettere a fattor comune di tutta l’organizzazione il know-how appreso.

Con tutta evidenza, i punti sopra menzionati sono importanti ma non possono prescindere dalla necessità del Paese di fornire ai propri talenti una visione di lungo periodo, per non rischiare di essere battuti sul tempo dall’agguerrita concorrenza delle aziende estere, in grado di intercettare più velocemente i talenti più preparati.  

Non si può nemmeno prescindere dalla creazione di un sistema meritocratico in cui, se sei bravo, hai la possibilità di plasmare la tua carriera professionale seguendo la tua ambizione e il tuo talento o, magari, di accedere a fondi stanziati per sviluppare le tue idee imprenditoriali, formando un tuo gruppo di ricerca focalizzato e dinamico. 

Molti sono i Paesi, soprattutto in Europa, che si sono attivati per risolvere tutto questo. L’Italia non è la sola a dover fronteggiare la fuga dei propri giovani talenti all’estero. Quello che si può scegliere è se essere in prima linea con tutti gli altri o aspettare che le cose accadano. Sono fortemente convinta che il sistema Paese abbia tutti gli strumenti per farcela, è importante volerlo seriamente e attivarsi ora. 
Non esiste una seconda possibilità, la partita va giocata e vinta adesso.

Patrizia Fontana

Tratto da "Il Foglio", 3 Dic 2019