Esperienza o istinto? Oggi meglio l’analisi predittiva

Gli analytics, il machine learning e la chiave della competitività

Non ci è affatto sconosciuta: le nostre aziende la utilizzano già per analizzare le interazioni con i clienti, prevenire guasti sistemici e, potendo, anticipare con buona approssimazione i trend sui cosiddetti mercati emergenti. Ma gli analytics offerti dal machine learning possono assolvere anche ad una funzione differente, più “intima”. Aiutare le organizzazioni a capire se un talento a bordo ha intenzione di andar via. Quando vorrebbe farlo. Perché. Indizi importanti per motivare ed offrire le giuste contropartite (coinvolgimento, crescita) per restare. Retention, la chiamano gli esperti. In più, analizzando i meccanismi migliori di soddisfazione del cliente interno, il machine learning può funzionare anche da leva per rendersi più appetibili ai talenti ancora al di fuori dell’organizzazione. Attraction, dunque. Perché, oggi più mai, disporre dei giusti talenti fa la differenza tra un’azienda che vince ed una che perde.

C’era una volta l’istinto, che andava a compensare il bagaglio di esperienze dei manager quando si trovavano a dover prendere una decisione importante sul capitale umano d’azienda, sulle risorse da proporre per avanzamenti di carriera e quelle che, invece, di lì a poco avrebbero preso un’altra via, lasciando l’organizzazione perché presi da offerte più allettanti. Conoscenze pregresse e fattori emotivi, dunque, che non avevano direttamente a che fare con dati empirici concreti. Oggi siamo in un mondo nuovo, quello dell’informazione e della tecnologia. Quello in cui esperienza ed istinto devono fare i conti con il complemento di analisi predittiva precisa offerto dai “workplace analytics”. Perché i numeri, a differenza delle impressioni, possono essere interpretati diversamente, ma non smentiti.

L’analisi predittiva aiuta l’azienda a realizzare inserimenti in modo più “intelligente”, perché riduce il rischio di turnover che è pratica costosa. Tra reclutamento ed assunzione, inserimento e formazione, all’organizzazione un nuovo dipendente costa fino a 1,25 volte il suo stipendio. In negativo, c’è poi il rischio di perdere risorse-chiave, e con esse il relativo ritorno d’investimento. Harvard Business Review e Engage Talent hanno realizzato una ricerca in tema, mostrando come i big data possano fare da traccia per indicare la propensione di chi sia in procinto di andar via. Eventi personalmente rilevanti (a livello familiare, aziendale o addirittura naturale). Problemi di gestione (e tutto ciò che demotiva la risorsa in via diretta o indiretta). Ambiente di lavoro (nel senso di “job embeddedness”, ovvero quanto un dipendente si senta collegato agli altri ed alla comunità). Domanda di mercato (relativa allo specifico profilo della risorsa ed alla sua employability).

Il problema si acuisce, se solo consideriamo che spesso l’abbandono singolo dell’organizzazione si inserisce in un fenomeno più ampio, come nel mikado, che fa sì che si verifichino ondate di turnover. Da un rischio, però, nasce sempre un’opportunità. E dunque, l’analisi predittiva “interna” può anche essere applicata, per quanto possibile, all’esterno dell’azienda, ai suoi competitor di mercato. Perché la guerra dei Talenti, in fondo, non è mai cessata. In questa guerra, big data, analisti ed ingegneri possono aspirare al ruolo di alfieri strategici, perché sorvegliano le metriche-chiave che regolano le più essenziali condizioni alla base del rapporto dialogico tra organizzazione e risorsa: leadership forte e riconosciuta come degna di affidabilità, stabilità dell’azienda e sua capacità di recupero, opportunità di crescita e, ultimo ma non ultimo, ambiente di lavoro positivo.

Cinque indizi che rimandano al medesimo, fondamentale concetto: quello della soddisfazione. Che è la chiave di volta per ritagliarsi una via nella giungla di un mercato all’insegna della competitività spinta.