Skilled Migration:
un gioco non “a somma zero”

La skilled migration, contrariamente a quanto si sostiene in proposito in ambienti più “tradizionalisti”, non fa parte di un gioco interamente a somma zero, perché chi intende partire...

La skilled migration, contrariamente a quanto si sostiene in proposito in ambienti più “tradizionalisti”, non fa parte di un gioco interamente a somma zero, perché chi intende partire, usualmente investe in formazione addizionale per accrescere il valore delle proprie competenze ed abilità e, così facendo, risultare lavorativamente più “appetibile” nel Paese di destinazione. Ovviamente, non tutti coloro che desiderano andar via trovano all’atto pratico il giusto corridoio per espatriare. Dunque, al netto della formazione preliminare, è corretto pensare che all’investimento di chi riesce a spostarsi si affianchi quello di quanti alla fine restano in patria. Questi ultimi, peraltro, avendo acquisito competenze ulteriori tendono a re-immetterle sul mercato interno, con benefici evidenti anche per il Paese d’origine.

Alcuni Paesi (si veda il caso delle Filippine e del sistema TESDA, ad esempio) hanno consolidato veri e propri sistemi educativo-formativi di respiro internazionale, in ottica di perseguire il duplice scopo di elevare lo standard educativo in patria, da un lato, e dall’altro facilitare lo spostamento in termini di circola-zione dei cervelli (così da investire in pratica in un futuro ritorno dei profili originariamente partiti). Non di rado (è il caso dei programmi bilaterali tra Australia e Paesi del Pacifico, ad esempio, o addirittura del programma statunitense CPCC, iniziativa di vocational training che recluta futuri specialisti in meccatronica da inviare in Germania per rinforzare le fila della Siemens), questi nuovi profili vengono creati ex novo in una modalità che richiama da vicino il concetto di customizzazione, a partire da un’esplicita collaborazione con i Paesi di futura destinazione.

Molte tra le economie emergenti presentano inoltre una solida domanda di lavoratori con alle spalle una formazione professionale di matrice anglosassone, figlia cioè degli alti standard qualitativi da sempre attribuiti alle Top Universities. Non c’è dunque da stupirsi nel constatare che, nel breve e medio-termine, alcuni di questi Paesi abbiano finito per incoraggiare apertamente la creazione di branches accademiche locali (si veda ad esempio il caso degli international branch campuses sorti in Cina: la University of Nottingham ha una sede a Ningbo), ovvero sovvenzionare direttamente scholarship estere (spesso in forma di study/work abroad programs, oppure come iniziative di scambio) rivolte ai propri studenti (gli States hanno creato il Fulbright Foreign Student Program; nel Regno Unito va per la maggiore Chevening Scholarship; l’Australia ha approntato addirittura l’Australia Award), magari includendovi una clausola di ritorno in patria per la fase finale del programma stesso (si veda il caso del progetto brasiliano Science Without Borders). Alle volte, l’azione governativa è stata affiancata (quando non addirittura preceduta) dalla stipula di standard rivolti ad assicurare una qualifica internazionale, ad opera di employers ed associazioni professionali (il caso più noto è qui rappresentato dalla certificazione CISCO per l’ICT).

Il tutto in base alla ovvia constatazione di quale peso e valore possano avere esperienze lavorative svolte all’estero una volta re-immesse nel bacino di know-how del Paese d’origine, in termini di transfer di nuove tecnologie o buone prassi che in quest’ultimo possono piuttosto restare latenti. L’aperta promozione realizzata dai Paesi d’origine fa qui il paio con il supporto di quelli di destinazione, che allo scopo non di rado erogano visti temporanei sia per profili altamente specializzati che per quelli che potrebbero essere definiti low-skilled.