Il bilancio della ricerca e l’agitazione del talento

Due modelli per una proposta di attraction a vantaggio dei nostri atenei e dei talenti del Sistema Paese

E’ vero, talmente vero che a forza di sentirlo ripetere da tg, quotidiani, web e quant’altro, il tema ci è ormai diventato familiare. Deve esserlo, d’altro canto, perché riguarda direttamente sia noi che il Paese cui facciamo riferimento, l’Italia. Molti ricercatori formati qui prendono la via dell’estero, in cerca di situazioni ed equilibri giudicati più promettenti o migliori. Le argomentazioni a supporto di questo esodo specifico sono infinite. Molte si limitano a deplorarne la dinamica, perché giustamente adottano una prospettiva in cui l’Italia perde sapere mentre altri Paesi ne acquisiscono. Altri vedono la questione dall’alto, magari chiamando in causa il tema della mobilità internazionale che, altrettanto giustamente, è necessità per la ricerca in sé e valore sia a livello di accrescimento dell’esperienza che di possibilità di confronto ed integrazione in culture differenti, spesso in maniera radicale, dalla nostra. Un interessante (e propositivo) contributo ce lo offre Gianluca Briguglia, Professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari, all’interno del blog che gestisce per il sito Ilpost.it.

A supporto della mobilità dei ricercatori all’interno dell’Unione, l’Europa ha da anni inaugurato un’opera di incoraggiamento forte attraverso programmi del calibro del Marie Curie, che “negli ultimi 10 anni ha finanziato circa 100mila progetti di ricerca di giovani ricercatori, che basino il loro progetto – selezionato secondo gli standard più rigidi – in un’istituzione universitaria o di ricerca di un diverso Paese da quello di provenienza.” Eppure, tornando alla pluralità di prospettive citata in precedenza, è giusto ricordare anche un differente lato della medaglia. L’incapacità del nostro Paese di attrarre docenti e ricercatori. Non si parla soltanto del ritorno dei nostri concittadini, ma soprattutto degli stranieri. “Nei dipartimenti italiani gli stranieri sono quasi inesistenti. E il problema è sia legato alle risorse che mancano, sia a una certa opacità dei concorsi a tutti i livelli (…), sia anche a una certa cultura diffusa di inerzia e in fondo di chiusura.”

Il Professor Briguglia parla a ragion veduta, avendo alle spalle incarichi di docenza e ricerca (a volte anche direttoriali) presso la Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, all'Università ed all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Da poco, “e grazie a una legge virtuosa di chiamata diretta dall’estero, che è uno strumento che alcune università stanno imparando a utilizzare in modo strategico”, ha fatto ritorno nel nostro e suo Paese. La necessità del cambio, di passo e di cultura, che sottolinea, parte non dalla filosofia dei massimi sistemi, ma dal quotidiano che ha potuto esperire in giro per l’Europa. Perfettamente consapevole della relativa lentezza del cambiamento, lo è altrettanto per quanto riguarda l’urgenza di agire, che declina in una serie di azioni precise a contrasto, esposte attraverso i casi di altri Paesi che ha potuto toccare con mano.

In Austria, ad esempio, esiste un programma di finanziamenti rivolto solo ai ricercatori stranieri con progetti innovativi, che vogliano operare in un’università austriaca di cui diventano dipendenti, ma essendo pagati da un organismo autonomo, il FWF der Wissenschaftsfonds. Per inciso, Portogallo e Spagna hanno prodotto varianti di questo modello accrescendo la loro attrattività per i ricercatori europei. La tedesca Fondazione von Humboldt, invece, da mezzo secolo seleziona ogni anno studiosi stranieri analizzando potenziale, risultati già ottenuti, ed innovatività. Finanziata dal Ministero della Ricerca, da quello dello Sviluppo Economico e dagli Affari Esteri, ha la “responsabilità” di aver supportato ricercatori ultra-premiati (Nobel), integrandoli nei suoi atenei e centri di ricerca per un biennio, investendo in modo sostenibile su procedure d’accesso ed obiettivi solidi.

“Perché non pensare a una cosa simile in Italia? Perché, nel processo di attrazione dei ricercatori stranieri, non partire proprio da quelli che sono nelle fasi iniziali, (…) che possano integrare i nostri dipartimenti (beninteso: a costo zero per i dipartimenti) e contaminarli con altre culture di ricerca, arricchendoli di talenti e aprendoli a progetti e reti internazionali?” Quello che il Professore inquadra in via teorica è il primo step di un percorso che, se mantenuto a regime, costituirebbe la prima pietra miliare di una lunga stagione di rivalsa del nostro sistema accademico e di ricerca. Fondazioni dedicate, coinvolgimento territorio, strategia precisa. Perché non tentare? “Il Drake” Enzo Ferrari era solito dire di sé: “non sono mai stato né progettista né calcolatore. Sono sempre stato un agitatore di uomini e di talenti.” Perché non rischiare di essere anche noi agitatori di Talenti?