Non una laurea, più di una laurea?
Potenziale, specificità ed esemplarità del modello ITS per l’urgente valorizzazione del talento italiano
Alternativa alla laurea. Forse, con più efficacia della laurea stessa a livello di inserimento lavorativo. Dal 2010 in Italia è stato attivato il sistema degli ITS, Istituti Tecnici Superiori: scuole ad alta specializzazione tecnologica, con percorsi co-progettati con enti formativi e realtà economiche attive sul territorio, a durata bi- o triennale. Un’alternativa da intraprendere a valle del diploma di maturità, che negli ultimi anni sta riscuotendo un gradimento eccezionale, sia da parte dei fruitori (gli studenti), che lato aziende. Oggi in Italia la cifra degli iscritti tocca quota 10.000, un dato ancora modesto specialmente se paragonato ai 750.000 della Germania. Eppure, a 12 mesi dal conseguimento del titolo i tassi di occupazione sono migliori di quelli garantiti dalla più canonica laurea.
Si tratta della prima esperienza italiana di un’offerta formativa che è post-secondaria, come detto non universitaria, eppure altamente professionalizzante. La nostra risposta alle più affermate Fachschulen (scuole di alta formazione tedesche), o al Brevet de Technicien Supérieur francese. Differenti diramazioni (104 istituti per 450 percorsi), tante quante sono le specializzazioni conseguibili, ovviamente, per un obiettivo comune. Formare profili altamente skillati in settori innovativi, altamente specializzati, strategici e, per questo, appetibili da parte del mondo del lavoro. Alcuni esempi: efficienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie della vita, tecnologie innovative per beni ed attività culturali e turismo, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nuove tecnologie per il Made in Italy (meccanica, moda, servizi alle imprese, agroalimentare, casa).
Nel biennio 2014-2015, oltre alle già citate cifre altisonanti tedesche, 500.000 studenti francesi avevano intrapreso questo percorso. Dietro, Spagna e Regno Unito con, rispettivamente, 400.000 e 250.000 iscritti. Nettamente indietro il nostro Paese, bollato come fanalino di coda dalle stime OCSE con appena 8.000 studenti, a fronte degli 1,6 milioni cubati dalle università. Peccato, per un’alternativa professionalizzante che, all’atto pratico, genera titoli spesso equipollenti alle lauree di primo livello (che come tali rientrano proprio nelle stime OCSE). Peccato, ancora, perché questi percorsi offrono una formazione “sul campo” (stage obbligatorio per il 30% del monte ore, possibilità di svolgere tirocini all’estero, 50% dei docenti proveniente dal mondo del lavoro), più veloce, più flessibile rispetto ai desiderata delle aziende ed alle fluttuazioni di mercato che li plasmano. Da ultimo, stando alle stime del monitoraggio MIUR-Indire 2018, agli ITS riesce anche di piazzare l’80% dei propri diplomati (Almalaurea non arriva oltre il 70% dei laureati), con un 90% che, non bastasse, finisce in lavori coerenti col percorso di formazione.
In un panorama formativo e professionale, quello italiano, che tende pericolosamente alla stasi, da un lato viene allora da rivolgere una fondata attenzione a questa sorta di start-up di alto potenziale; dall’altro, sorge l’invito a prenderne spunto, specialmente in termini di vicinanza effettivamente sviluppata rispetto al mondo del lavoro, nell’ottica di creare le condizioni fattive per sfruttare appieno il potenziale dei nostri talenti a beneficio del Sistema Paese.