“Expat” sì, ma non per sempre

Tre talenti, due Paesi ed una promessa

SBS-Special Broadcasting Service Italian diffonde in tutta l’Australia notizie in lingua per gli italiani che qui risiedono. Di recente, a valle della presentazione degli impietosi dati (500mila italiani, di cui la metà tra i 15 e i 34 anni, negli ultimi 10 anni sono andati a vivere e lavorare all'estero; proprio questa metà “junior” ha portato con sé un potenziale di 16 miliardi di euro) del "Rapporto 2019 sull'economia dell'immigrazione" della Fondazione Leone Moressa, ha dedicato una puntata ai nostri expat che in Oceania hanno trovato una nuova casa ed una carriera, mettendo a segno una serie di interviste con quesiti tra i quali spiccavano domande come: "A parte la cultura e gli affetti, che cosa vi spingerebbe a tornare in Italia?" e "Quali incentivi vi farebbero considerare la possibilità di rientrare nel vostro Paese d'origine?"

Ecco tre testimonianze tra quelle raccolte. Storie di talenti italiani che hanno scelto la via dell’estero, riprese da AISE-Agenzia Internazionale Stampa Estero, in un articolo dall’emblematico titolo: “E’ possibile tornare a lavorare in Italia?”. Andrea Ciaffi ha 32 anni, è nato romano e giunto a Sidney nel 2014 con in tasca una laurea in ingegneria edile. Oggi lavora in ARUP, nel suo campo, e ha acquisito anche la cittadinanza australiana. Riconosce lo sforzo del Paese per riportare a casa i suoi talenti, ma giudica gli sgravi insufficienti da soli: “bisogna risolvere il problema per il quale i ragazzi se ne sono andati, che era secondo me una prospettiva per il futuro a lungo termine." Non è un mero sfogo, il suo, e prova a dare la sua soluzione per migliorare l’appetibilità dell’Italia rispetto a chi, esattamente come lui, se n'è andato.

"Se non investiamo in un piano di infrastrutture credibile, uno per ogni settore, medicina, ingegneria, eccetera, non possiamo proporre solo sconti fiscali.” Perché “quello che conta sono le opportunità che bisogna generare." Per un’Italia come quella fotografata dal Rapporto della Fondazione, accanto alla perdita economica ingente c’è quella ancor più urgente da risolvere del know how, delle competenze che chi parte porta via con sé, che magari verranno perfezionate all’estero e all’estero porteranno valore aggiunto da sottrarre al nostro Paese. Per Andrea, la soluzione migliore sarebbe un mix di investimento pubblico, da un lato, e give-back, dall’altro: dare la possibilità a chi è andato via di insegnare all'Italia ciò che ha appreso sul campo fuori.

Anche Stefano è ingegnere, e il suo titolo, come quello di Andrea, viene da Roma. Ancora, anche Stefano pensa a cambiamenti strutturali, a far evolvere il sistema lavoro, “il modo in cui le aziende operano ed il modo in cui gli investitori investono in Italia.” L’Australia è piena di lavoro italiano, e molti nostri connazionali si fanno valere anche sul fronte accademico. Nato ingegnere civile, Alberto Meucci ad oggi è ricercatore per la University of Melbourne (quella inserita nel ranking dei migliori atenei mondiali per Mba full-time). La sua testimonianza è meno nostalgica, forse più severa. Ricorda un’Italia in cui "la situazione, almeno nel mio campo, era abbastanza difficile.” In cui il lavoro c'era, ma lo stipendio non consentiva stabilità sufficiente. In cui era necessario aspettare, perché "ti dicono che sei un investimento, che devi aspettare." Non si sentiva troppo preso in considerazione, e ha scelto un’altra vita.

Ad Andrea, a Stefano, ad Alberto. A tutti quelli che hanno fatto una scelta che è comunque coraggiosa, spesso durissima e forzata da condizioni e situazioni che lasciano poche altre alternative. A loro, noi tutti che restiamo in questo Paese ed ogni giorno viviamo l’Italia con le sue luci ed ombre, a tutti loro noi dobbiamo fare una promessa, e qualcosa in più. Dobbiamo mantenerla. Dobbiamo promettere loro che ricostruiremo un Paese degno del nome che porta, innovativo quanto lo spirito creativo che ha da sempre regalato al mondo, un sistema cui guardare con ammirazione e con la voglia di esserne parte. Non una mèta culturale o vacanziera, ma un Paese capace di sedere tra i grandi. Un polo d’eccellenza, una culla di talento, che sa generare potenziali ma sa anche coltivarli, sostenerli, farli crescere. Che sa attrarre chi italiano non è. Che sa farsi snodo e parte attiva e vitale di una rete più grande, che crea sapere, lo fa circolare e lo vede tornare.

Perché la parola “expat” sia solo una parentesi stampata su tanti curricula italiani di spessore. Il talento è mobile, e a volte fa giri lunghissimi ma poi torna a casa, per continuare a splendere più di prima.