L’Italia dei ricercatori: bella, matura, e ci spezza sempre il cuore

Luci ed ombre della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia 2019 CNR

Spesa per Ricerca e Sviluppo in rapporto al PIL in salita. Crescita degli stanziamenti pubblici. Aumento dei ricercatori sul totale della forza-lavoro. Divario di genere in ripresa. Come il saldo commerciale tecnologico ed il numero dei brevetti. E’ il quadro offerto sul contributo del nostro Paese, allineato ai Programmi Quadro UE, dalla Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia 2019 firmata CNR, ufficialmente presentata alla presenza di ospiti di spicco, tra i quali il premier Conte, il Ministro dell’Istruzione, università e ricerca scientifica Fioramonti, il presidente della Crui, Gaetano Manfredi, il presidente del Cnr Massimo Inguscio (oltre ai curatori della Relazione, Daniele Archibugi e Fabrizio Tuzi). Un Paese che migliora, quindi, ma non abbastanza a quanto pare. Perché contribuiamo più di quanto riusciamo ad ottenere grazie ai progetti di ricerca che ci aggiudichiamo. E perché l’età media dei nostri ricercatori resta ancora molto distante dalla media europea.

Il rapporto, realizzato e messo a disposizione del Governo, del Parlamento e della pubblica opinione, contiene ed evidenzia una mole importante di analisi e dati relativi alle politiche della scienza e della tecnologia. Fotografa una spesa per R&S (Ricerca e Sviluppo) che, complice l’interruzione del trend di diminuzione degli stanziamenti pubblici, raffrontata col PIL sta salendo, partendo dall’1% del 2000 all’1,4 del 2016. Siamo però ancora lontani, non lontanissimi però, dalla media continentale del 2%. Il MIUR stanzia 1.670 milioni di euro agli Enti pubblici di ricerca (Epr). Nell’ultimo biennio, l’incremento è stato di 47milioni, passando da 555 a 602. Anche il numero dei ricercatori in rapporto alla forza-lavoro complessiva mostra un trend di crescita Dal 2005 al 2016 i ricercatori sono 60.000 in più. Avanziamo anche sul fronte del gender balance relativo al personale di ricerca, con proiezioni di pareggio tra uomini e donne ed il divario azzerabile entro il 2025 nelle istituzioni pubbliche ed un recupero importante negli atenei (unici nei sembrano permanere rispetto all’ambito aziendale ed alle possibilità di progressione di carriera, ad oggi entrambe in stasi).

Nota decisamente dolente va purtroppo riservata all’anagrafica. Nelle università italiane, gli over 50 superano la metà delle docenze. Altrove (Regno Unito e Francia, ad esempio, con i rispettivi 40 e 37%) la situazione appare più rosea. Il docente italiano medio si affaccia ai 50anni, 46 se lavora in un Epr, 43 se opera in azienda. Lo strascico di un trend più generalizzato, quello del progressivo invecchiamento della popolazione. E di una miopia, quella del settore pubblico, legata a reclutamento e, soprattutto, programmazione di lungo periodo. Un vuluns da arginare quanto prima, per evitare un ulteriore avanzamento d’età su tutti i fronti, tale da inibire il corretto ricambio generazionale. In ballo, qualcosa che trascende l’anagrafico: il rischio di disperdere competenze e meritocrazia, perdendo l’occasione (che ormai si è fatta urgenza) di predisporre politiche adeguatamente orientate ad un futuro tanto prossimo da essere già alle porte, oltre a quella di consolidare le necessarie sinergie per massimizzare l’impatto della nostra produzione, scientifica e non solo.

I ricercatori italiani da soli producono il 5% delle pubblicazioni mondiali. Peraltro, con risultati qualitativamente superiori, se consideriamo che tra il 2017 ed il 2018 le citazioni medie ricevute per ogni pubblicazione arrivano all’1,4%. Praticamente siamo messi come la Francia, che però ha molti più ricercatori. Questa inferiorità numerica ci penalizza, in parte, anche nell’ottenimento di finanziamenti lato Programmi Quadro Europei: nel primo triennio del settennale programma, a noi è toccato l’8,7%. Germania (16,4%), Regno Unito (14,0%) e Francia (10,5%) hanno ottenute basi più solide. Il saldo è purtroppo negativo, perché contribuiamo al bilancio complessivo per il 12,5%. Dipende anche dal nostro tasso di successo, che arriva al 7,5% a fronte di una media del 13.

I margini di miglioramento (garbato eufemismo per dire: “difetti”) sono ancora tanti. Ma bastanti per reclamare politiche strategiche ed innovazione. Pena il protrarsi della migrazione di potenziali verso destinazioni giudicate più fertili per il nostro talento. Possiamo seguitare a permettere questo?